Un 8 marzo diverso dagli altri

La mattina dell’8 marzo ho alzato la tapparella della mia vecchia camera da letto a casa dei miei genitori a Milano. La stanza è esposta a est e immediatamente si è diffusa la luce calda del sole attraverso le fessure. È un fatto normale, che è successo ogni mattina di bel tempo in cui mi sono alzata in quella stanza per anni, eppure quel giorno mi ha trasmesso una sensazione particolare. Il sole continua a sorgere – ho pensato – nonostante il coronavirus, nonostante i decreti sulle zone rosse, nonostante le quarantene e la chiusura di scuole, cinema, teatri, nonostante le persone muoiano ogni giorno.

La sera precedente si era diffusa l’indiscrezione che il governo stava per emanare un decreto che avrebbe vietato di entrare e uscire dalla Lombardia. Io ero preoccupata all’idea di non poter tornare a casa mia nel Lazio. Ero anche preoccupata perché una decisione così drastica mi ha fatto capire, come gli eventi successivi hanno confermato, che la situazione era più grave di quanto immaginassi. Ed ero preoccupata all’idea di tornare a casa separandomi dai miei genitori, dai miei fratelli, dai miei nipoti, che si trovano in Lombardia e in Emilia Romagna, dove c’era la massima diffusione del virus. Ero anche dispiaciuta perché abbiamo dovuto cancellare tutte le presentazioni programmate per Dammi Vento, rinviandole a data da destinarsi.

Eppure quella mattina vedere la luce del sole entrare nella stanza mi ha rassicurata e le mie preoccupazioni, i miei dispiaceri mi sono sembrati piccoli rispetto al fatto che il sole continua a sorgere ogni giorno e che la natura continua il suo risveglio come ogni primavera.

La quarantena

Sono ripartita da Milano due giorni dopo, in un’atmosfera surreale, quasi spettrale. Sono salita su un treno vuoto, in una stazione vuota, indossando la mia mascherina, ho salutato i miei senza avere idea di quando li avrei rivisti e, quando sono arrivata a casa, ho iniziato la quarantena prevista dai decreti ministeriali.

Ogni giorno lavoro, pratico yoga, faccio attività fisica (mi sono inventata una forma di “step” casereccio facendo le scale più volte al giorno), sento amici e famigliari al telefono, studio, metto insieme le idee per un nuovo libro e rifletto. Rifletto sugli effetti paradossali che questa situazione ha già creato e mi domando quali saranno quelli futuri. Sono preoccupata per la salute di tutti, per i danni sulla nostra economia, già piuttosto “scricchiolante”, dispiaciuta per le difficoltà di chi rischia di perdere il lavoro o l’ha già perso, senza parlare delle vittime del virus e delle loro famiglie.

Ma cerco anche di chiedermi cosa di buono ne potrà uscire. In fondo, mi sono detta, gli italiani hanno affrontato due guerre mondiali. Il dopoguerra è stato il periodo in cui tutti indistintamente hanno lavorato per ricostruire il Paese e il trentennio che ne è seguito, nonostante alcuni momenti di forte tensione politica ed economica, è stato di fatto il più florido e sereno che il nostro Paese abbia conosciuto.

Mi è venuto in mente il libro di Aldo Cazzullo “Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione”, nel quale l’autore racconta gli anni del dopoguerra, osservando che oggi come ieri l’Italia è, per certi aspetti, un Paese da ricostruire ma, pur avendo più ricchezza e risorse di allora, è come se mancasse nelle persone la fiducia di potercela fare.

Siamo tutti collegati

A mio parere quello che da tempo ci manca è soprattutto il senso di unione e credo che la mancanza di fiducia nasca anche da questo. Se ci si sente soli e isolati è impossibile pensare di poter cambiare le cose, di poter ricostruire un Paese. Ma se ci si rende conto, come sembra essere ormai chiaro a tutti, che ognuno di noi è collegato all’altro, che il mio benessere dipende anche dal tuo e viceversa e che essere uniti significa aumentare le nostre risorse in modo esponenziale, allora credo che ci possa essere nuovamente spazio per la fiducia.

E in questi giorni, in cui ogni persona e ogni nucleo famigliare deve restare isolato nella propria casa, ho la sensazione che ci si senta paradossalmente più uniti, sicuramente perché c’è un obiettivo comune di importanza vitale, ma forse anche perché in questa occasione ognuno di noi sta avendo modo di riflettere sul valore del sentirsi vicini e connessi gli uni agli altri.

“È il respiro dell’Universo che ci unisce in un’unica perfetta armonia. Tutto è amore incondizionato” è la riflessione di Luca, proprio quando si trova solo in mezzo all’oceano “nel punto più lontano da ogni terra emersa”.

Tutto andrà bene

Penso alle iniziative di solidarietà che si sono attivate in queste settimane, tra cui quella promossa da JeanLuc Bertoni, il nostro editore, che con #piùlibrimenostress ha reso disponibili gratuitamente i libri a catalogo inizialmente per i residenti della zona rossa del lodigiano e, in seguito, per tutta Italia.

Penso ai medici cinesi che, dopo aver lavorato settimane per gestire l’emergenza nel loro Paese, sono venuti in Italia mettendo la loro esperienza a nostra disposizione nonostante i rischi che questo comporta. E penso ai medici, agli infermieri e a tutti coloro che stanno lavorando duramente per assistere i malati, o per trovare una cura, o un vaccino.

E pensando a tutto questo mi viene in mente il mantra di Tindara “Baba Nam Kevalam”, tutto è amore infinito, e mi rendo conto che è proprio vero che in ogni situazione c’è spazio per l’amore, perché cosa sono queste se non espressioni di cura e di amore per l’altro?

E se questo è vero, mi dico, allora tutto andrà bene.